Cerchio VIII, bolgia sesta. Gli ipocriti. Caifàs
Mentre i diavoli si azzuffano tra loro e si invischiano nella pece, i due poeti colgono l’occasione per liberarsi di loro e si avviano verso la bolgia successiva, procedendo « taciti, soli, senza compagnia » come fanno i frati francescani. Dante medita sulla favola del topo e della rana: questa si dispose a fare attraversare un corso d’acqua ad un topo ma prima lo legò a sé: voleva farlo affogare immergendosi, e ci sarebbe riuscita, se dall’alto un nibbio non li avesse ghermiti entrambi. Così era capitato ad Alichino e a Calcabrina che volevano prendere il barattiere ed erano rimasti impaniati nella pece. I poeti si rendono conto che i diavoli appena usciti dal « bogliente stagno» si getteranno su di loro e perciò accelerano il passo. E quando vedono da lontano i diavoli desiderosi di vendetta, Virgilio, stretto al petto il discepolo, si lascia scivolare lungo la parete scoscesa per cui si scende nella sesta bolgia dove non possono essere raggiunti dai diavoli, poiché la legge divina prescrive loro di stare nella bolgia assegnata. Sfuggiti al pericolo i due poeti riprendono il viaggio con animo meno teso. – La bolgia in cui ora si trovano è quella degli ipocriti. Questi procedono a passi lentissimi, con l’atteggiamento di chi è molto stanco: indossano cappe con cappucci che scendono sugli occhi secondo la foggia che in terra è propria dei monaci di Cluny. All’esterno le cappe sono dorate, dentro sono di piombo: così pesanti che al confronto potevano sembrare leggere come la paglia le cappe che Federico Il faceva indossare ai condannati per delitti di lesa maestà. Gli ipocriti sono dunque uomini dalla doppia faccia: una esterna, accattivante e buona; l’altra interna plumbea, malvagia, fraudolenta. Dante, sempre interessato a scoprire tra i tanti qualcuno che possa avere valore esemplare, chiede a Virgilio di aiutarlo nella ricerca. Ed uno degli spiriti, che dalla pronuncia capisce che Dante è toscano, li invita a camminare con lui e del suo passo: forse può soddisfare il desiderio del poeta. Dante vede non uno ma due dannati che mostrano una grande voglia di accostarglisi: parlano tra loro e si stupiscono della presenza di un vivo e ne vogliono sapere il nome. Nacqui — risponde il poeta — nella grande città sulla riva del bel fiume Arno. Ma voi due chi siete? Fummo dell’ordine dei frati godenti rispondono — e fummo podestà di Firenze dopo la battaglia di Benevento: siamo Catalano dei Malavolti e Loderingo degli Andalò, ambedue bolognesi. Dante si appresta a lanciare contro di loro e contro i frati in genere un’invettiva che metta in risalto la loro ipocrisia, ma si interrompe attratto dalla vista di un dannato crocifisso in terra con tre pali. È Caifàs, il sommo sacerdote ebreo che indusse il sinedrio a mandare a morte Cristo col pretesto che il supplizio era opportuno per il bene pubblico. Messo di traverso sulla strada percorsa dalla teoria degli ipocriti, è calpestato da tutti e di tutti sente e sentirà per sempre il passo. Allo stesso supplizio sono condannati Anna, suocero di Caifàs e i sacerdoti ebrei che votarono per la morte di Cristo. C’è un’altra cosa da chiedere: come si fa a giungere alla bolgia che segue. Devono salire su per la parete opposta a quella per cui sono discesi: non c’è nessun ponte che attraversi la bolgia: tutti, non uno solo, crollarono il giorno della morte di Cristo. Virgilio si accorge che Malacoda aveva tentato di imbrogliarlo; ed il frate che gli dà le informazioni, con lieve sarcasmo gli fa notare che è stato un ingenuo: io — gli dice — a Bologna ho sempre sentito dire che il diavolo oltre ad altri vizi ha quello della menzogna. Virgilio non accoglie bene questa stoccata dell’ipocrita e si allontana in fretta. Questo canto, più che degli ipocriti in genere,. si potrebbe dire dei frati ipocriti; difatti i monaci ci accompagnano per tutta la bolgia: dapprima si affacciano attraverso il paragone col modo di camminare dei frati minori; poi si precisano con l’accenno al cappuccio dei frati del monastero francese di Cluny ed infine si presentano in prima persona. Due frati sono dell’ordine che il popolo beffardamente chiamò dei godenti. Accanto a loro e con loro ci sono gli ipocriti ebrei. Tra monaci e scribi e farisei non c’è differenza: tutti operarono con inganno, coprendosi il volto di benevolenza. Dante evidenzia alcuni ecclesiastici particolarmente dannosi all’umanità, oltre che corresponsabili della decadenza della Chiesa: quelli cioè che, simulando di volere il bene dei fedeli si comportarono da politicanti corrotti. Così operarono a Firenze i due frati godenti: presentatisi quali podestà imparziali, (ma in realtà alleati dei guelfi), espulsero dalla città i ghibellini ponendo cosi le basi delle molte guerre comunali. Per questo, gli ipocriti di Dante sono soprattutto da ricondurre alla sigla dei grandi mestatori pubblici.