Lo smarrimento nella selva. Le tre fiere. Incontro con Virgilio. Profezia del veltro.
Nella sera di un imprecisato giorno della primavera del 1300, Dante — è sui trentacinque anni, l’età in cui tutto pare sollecitare l’uomo medievale ad un bilancio esistenziale — si trova in una selva « oscura «, « aspra e difficile: vi è giunto dopo aver smarrito la « diritta via ». Profondamente turbato dalla coscienza del pericolo mortale che lo sovrasta, egli cerca una via di uscita. Al di là della selva, intravede un colle, illuminato dai raggi del sole: è il luogo di salvezza, e a quello si avvia pieno di speranza. Dato uno sguardo indietro alla selva e riposatosi un poco, inizia la salita al colle. Ma a farlo retrocedere e a ripiombarlo nella disperazione ecco farsi innanzi tre fiere: una lonza dal mantello variegato, un feroce leone ed una lupa irrequieta e magra. Dante, persa ogni speranza di salvezza, ridiscende verso la selva. Così comincia il racconto del viaggio che condurrà Dante dalla terra ai tre regni oltre mondani, alla ricerca di quella verità e di quella legge di giustizia e di pace, respinte in terra dalla violenza e dalla cupidigia. Di questo viaggio che ha come punto di partenza una selva minacciosa, e come punto terminale la riconquista delle leggi divine, indispensabili alla felicità umana. Dante è il protagonista. Ma se tutto dovesse esaurirsi nella prodigiosa avventura del poeta soccorso dalla Grazia tutta la macchina del poema apparirebbe mossa per un modesto fine. Il viaggio del poeta è invece il simbolo dell’itinerario che percorre l’umanità tutta, ogni volta che si smarrisce e cade nel male, e deve ritrovare le strade che conducono alla verità. In altre parole, fin dall’inizio Dante è il simbolo del cittadino di una società turbata e sconvolta da forze contraddittorie, dalla violenza, dalla guerra, dal disordine, impegnato a ristabilire la saggezza e la misura. Il suo dramma si configura come il dramma di una società che dovrà reimparare a inserire integralmente nel circolo della sua quotidiana esistenza, le forze morali e religiose che sono la premessa della felicità eterna.
Ma un’altra osservazione emerge dall’esame della prima parte del canto. Dante non ci parla del suo prodigioso viaggio nel momento in cui esso si compie: lo racconta. Il poema è, dunque, un’opera di memoria, trascrizione, sul filo dei ricordi, del viaggio compiuto e ora rivissuto a distanza di tempo. Per questo l’opera si svolge sempre su due piani: quello dell’esperienza ormai conclusa, e quello dell’attuale revisione, che implica un giudizio su quello che fu. Così Dante recita due parti: del personaggio-protagonista, e del narratore-giudice. Inoltre: Dante è, sì, cittadino di una determinata città, é l’individuo Dante, ma è anche il simbolo di tutta l’umanità del suo tempo. In altri termini: l’azione è intellegibile sempre secondo due sensi: quello delle cose nel loro significato letterale, e quello che la lettera sottintende, il senso vero e profondo che, a norma dell’esegesi medievale, è detto allegorico (il quale si ha quando il poeta afferma una cosa, ma intende dirne un’altra: ad es. lupa = cupidigia). Il primo significato è quello reale, immediato, ma insufficiente (l’altro, che si può dire anche simbolico se il poeta oltre che dare di una cosa il senso morale, si sofferma sulle caratteristiche reali della cosa rappresentata), — e interpreta ogni cosa nel quadro della vita religiosa dell’umanità. I tre animali sono tre animali reali ma sono soprattutto il simbolo di tre aspetti diversi dell’irruzione del male nella società. I piani della realtà terrena e di quella ultraterrena confluiscono in un unico significato: tra i mondi, attraverso i quali si svolge il viaggio, e il mondo dell’uomo vi è un costante legame: il poeta intende giungere in Paradiso, consegnare agli uomini i valori su cui edificare la società terrena sul « modello trascendente della città di Dio»
(N. Sapegno).
Riprendiamo il racconto. Dante, persa la fiducia nelle proprie forze, si avvia precipitosamente verso la selva, verso un destino di degradazione, quando all’improvviso scorge una figura, di cui non sa subito dire se sia un uomo in carne ed ossa o uno spirito. È Virgilio, il poeta latino, la cui opera Dante più che ogni altra aveva cara e da cui traeva lezioni di vita morale e di perfezione letteraria. A lui il poeta dice tutta la sua angoscia e ne invoca l’aiuto perché lo salvi. Virgilio serenamente gli rivela che è possibile salvarsi da quelle fiere: bisogna però attraversare i regni della perdizione eterna (l’inferno) e della penitenza (il purgatorio): da qui il poeta potrà salire al regno della beatitudine (il paradiso). Questa è l’unica strada della salvezza: quella del ritorno a Cristo perché intervenga a sconfiggere il disordine generato dalla cupidigia (la lupa). E Cristo interverrà: in terra, contro la lupa, invierà un veltro (un veloce e forte cane da caccia), che respingerà nell’inferno la lupa, e ricollocherà gli uomini al loro giusto posto. Con l’avvento di questo liberatore, la società sarà riformata. Però, prima, occorre che gli uomini riconquistino Dio, con un ideale viaggio nell’aldilà. Dante accetta la proposta di Virgilio e guidato da lui inizia il viaggio.
Qual è il senso di questa seconda parte del canto? Virgilio è il simbolo della ragione, alla quale l’uomo che si è smarrito affida il compito della riedificazione della vita morale: la ragione deve però essere assistita dalla Grazia. Ugualmente limitata è l’azione dell’uomo nel campo dell’organizzazione della società: anche qui è necessario l’intervento divino che si concreta nell’invio provvidenziale del veltro, cioè di un riformatore che ristabilirà l’ordine. Non esiste salvezza per l’uomo e per la società se non attraverso la riconquista delle leggi cristiane unica garanzia contro lo scatenamento delle forze distruttive del male.