Dal pessimismo personale, Leopardi arriverà ben presto al pessimismo storico passando per la cosiddetta teoria del piacere, che deriva dagli illuministi francesi e dal pensiero di Pietro Verri, ma anche da Lucrezio ed Epicuro. Secondo questa teoria, l’uomo è in grado di immaginare l’esistenza di piaceri che non esistono, e può figurarseli come infiniti in numero, durata ed estensione. La felicità corrisponde quindi all’immaginazione in sé e per sé, facoltà che è data all’uomo dalla natura, che in questa fase del pensiero leopardiano è quindi ancora benigna perché prova pietà per la condizione degli esseri umani. Nei tempi moderni però la ragione ha smascherato il mondo illusorio degli antichi e rivelato la realtà per quella che è, facendo piombare l’uomo in una condizione di profonda infelicità. Quindi, sottolineando ancora questo importante concetto, in questa fase del pensiero leopardiano l’infelicità dell’uomo è un prodotto della ragione moderna e soltanto gli antichi hanno potuto raggiungere una condizione di felicità (ancorché illusoria) perché non condizionati dallo sviluppo del sapere razionale nel loro accostarsi alla natura e alla vita stessa. Per Leopardi, l’unico piacere possibile diventa una condizione di assenza epicurea o stoica di ogni turbamento, ma visto che questo stato è difficile da raggiungere, il vero piacere è solo nell’attesa. Anche il soddisfacimento dei bisogni che la natura ha fornito agli esseri umani può portare piacere, ma è solo un piacere temporaneo in quanto subentra presto il tedio, la noia, che è sia il male più grande che possa affliggere l’uomo, sia il “più sublime dei sentimenti umani” in quanto significa possedere uno spirito superiore ed elevato, a cui non basta il mondo materiale per essere soddisfatto. Pertanto gli individui migliori e nobili sono quelli che soffrono di più per la miseria della condizione umana. I rimedi alla noia, secondo Leopardi, sono il sonno, l’oppio e il dolore stesso, oltre che l’arte e il perdersi nel proprio pensiero (o in un istante senza pensiero alcuno). In questa sua visione della natura come madre benefica, dell’uomo naturale come incontaminato, tendente al buono e dotato di un’immaginazione che lo consola, notiamo l’influenza di Jean-Jacques Rousseau. Nell’autunno del 1822 Leopardi ottiene dai genitori il permesso di andare a Roma, ospite dello zio materno, Carlo Antici. La città gli appare squallida e modesta se paragonata all’immagine idealizzata che il poeta si era fatto studiando i classici. Lo colpiscono la corruzione della Curia e l’alto numero di prostitute, che gli fa anche abbandonare l’immagine idealizzata della donna. Resosi conto che il mondo al di fuori di Recanati non è quello che sperava, nell’aprile del 1823 Leopardi vi ritorna e, tra il gennaio e il novembre del 1824, compone buona parte delle Operette morali. Nel 1825 l’editore Antonio Stella lo invita a Milano con l’incarico di curare l’edizione completa delle opere di Cicerone ed altre edizioni di classici latini e italiani. Leopardi accetta ma non rimane a lungo nella città in quanto il clima è dannoso alla sua salute. Si trasferisce così a Bologna dove vive in via Santo Stefano 33 fino al giugno del 1827, mantenendosi con l’assegno mensile dello Stella e dando lezioni private. Esce in quell’anno la prima edizione delle Operette Morali. Le Operette morali, considerate come l’approdo letterario di quasi tutto lo Zibaldone, sono una raccolta di ventiquattro componimenti in prosa, divisi tra dialoghi e novelle di stile medio (che trattano quindi di personaggi e vicende di media importanza) e di stile ironico. Lo stile riprende quello dei Dialoghi dei morti di Luciano di Samostata, e nonostante Vincenzo Monti avesse rispolverato il genere qualche anno prima e Leopardi avesse letto quelle opere, le Operette morali restano un’opera originale e senza seguito nella storia della letteratura italiana. Il titolo lega insieme i due aspetti principali dell’opera: il carattere satirico e il fine morale. Operette è infatti un diminutivo usato per umiltà: si tratta di componimenti brevi, considerati piccoli in mole e in valore dall’autore, ma la loro brevità contribuisce a renderli molto chiari ed efficaci dal punto di vista filosofico. Il termine morali, dal latino mores (abitudini, costumi), indica la volontà di distruggere i costumi del tempo e di individuare nuovi modelli di comportamento, mettendo a confronto l’antichità e la modernità. Uno degli strumenti che l’autore usa per far questo è l’ironia, che gli permette di giocare con i comportamenti umani contemporanei e allo stesso tempo mantenere la finalità morale dell’opera. Il riso ha poi per Leopardi una funzione medicamentosa che allevia il dolore. Il messaggio delle Operette non è quindi solo teoretico, ma anche pratico: propongono un umile rimedio agli effetti funesti della filosofia moderna recuperando le passioni e l’immaginazione dell’antichità, che proprio perché sono fondate sul falso, sull’illusione, diventano un modo per migliorare la qualità della vita umana e per narcotizzare il dolore (come abbiamo visto, questo è un tema molto ricorrente, quasi il pilastro del pensiero leopardiano). Il dolore però ha anche una funzione positiva; serve infatti a combattere la noia in quanto “mentre l’uomo patisce non si annoia per niuna maniera”. Quindi, mentre la felicità è irraggiungibile, il patimento non solo è sempre presente nella vita, ma è necessario alla vita stessa. I temi trattati nelle Operette sono quelli cari a Leopardi: il rapporto dell’uomo con la storia, con i suoi simili ed in particolare con la Natura; il confronto tra i valori del passato e la degenerazione del presente; la potenza delle illusioni; la gloria; la noia.
Il Dialogo della Natura e di un Islandese e il Dialogo di un fisico e di un metafisico formano il gruppo di operette che fanno emergere con assoluta chiarezza il passaggio dal pessimismo storico al pessimismo cosmico (cosmico in quanto include ogni forma vivente, comprese piante e animali). In questa fase del pensiero leopardiano la natura è maligna ed è la causa del dolore dell’uomo, in quanto essa stessa lo ha creato con un profondo desiderio di felicità, pur sapendo che egli non può mai raggiungerla; inoltre, dopo aver generato un uomo la natura cerca di fatto di eliminarlo per far spazio ad altri individui in un continuo ciclo di produzione e distruzione, destinato a perpetuare l’esistenza e non a rendere felice il singolo. In questo senso si parla di una visione materialistica della natura (molto chiara nel Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco) e di un Leopardi che anticipa la visione evoluzionistica di Darwin. Il materialismo di Leopardi causerà la censura delle Operette morali da parte delle autorità borboniche prima, e successivamente la loro messa all’indice dei libri proibiti da parte dell’autorità pontifica. In merito a ciò Leopardi disse: “La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui e in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto”. Ricordiamo che Leopardi aveva abiurato al cristianesimo già nel 1820, ma mentre una parte della critica lo definisce ateo, altri parlano di agnosticismo, che significa sospendere il giudizio su un problema in quanto non si hanno informazioni sufficienti. Ancora, secondo alcuni critici, il pensiero di Leopardi anticiperebbe anche il nichilismo di Nietzsche e quello dell’esistenzialismo ateo moderno, ad esempio quello di Albert Camus (che, come abbiamo visto nel video a lui dedicato, ha in sé qualche traccia di speranza) o di Emil Cioran. L’operetta morale Dialogo di Plotino e Porfirio (1827) contiene i temi dell’ultima fase del pessimismo leopardiano, conosciuta come pessimismo eroico. La lunga discussione tra i due filosofi antichi sul suicidio si conclude con l’affermazione che la scelta di uccidersi dev’essere rifiutata in quanto aggiungerebbe un ulteriore motivo di sofferenza alle persone che vogliono bene al suicida. Plotino quindi conclude: “Andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente, per compiere nel miglior modo questa fatica della vita”, lasciando intendere che questo spirito di solidarietà e condivisione è l’unico modo per difendersi dalla potenza cieca della Natura e auspicando l’avvento di una società in cui gli uomini si stringono “in social catena”. Si parla di pessimismo eroico in quanto l’uomo, insieme con i propri simili, afferma orgogliosamente ed eroicamente la propria dignità di fronte alla sofferenza. Il pessimismo eroico è stato avvicinato da taluni critici (specialmente quelli di area marxista, come Antonio Gramsci) alla nascente ideologia socialista, ma il consenso è che esso sia più legato alla filantropia settecentesca di stampo illuminista. Nel giugno dello stesso anno (1827) Leopardi si trasferisce a Firenze dove diventa amico del generale e patriota Pietro Colletta e conosce, tra gli altri, Alessandro Manzoni, che si trovava lì per rivedere I promessi sposi dal punto di vista linguistico. A novembre del 1827 si sposta a Pisa, dove torna alla poesia dopo una pausa che durava dal 1823 e compone Il risorgimento e A Silvia, inaugurando il periodo dei cosiddetti “grandi idilli”. A causa dell’aggravarsi del disturbo agli occhi, Leopardi deve sciogliere il contratto con l’editore Stella e nell’estate del 1828 torna a Firenze nella speranza di trovare un modo per poter vivere in modo indipendente. Le sue condizioni di salute però peggiorano ancora ed è costretto a ritornare a Recanati dove rimane fino al 1830. In questi “sedici mesi di notte orribile” nella città che odia e che definisce “natio borgo selvaggio” Leopardi continua a dedicarsi alla poesia scrivendo alcune delle sue liriche più importanti tra cui Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Il passero solitario, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Queste poesie, a lungo denominate dai critici “grandi idilli” o anche “secondi idilli”, sono ora conosciute, insieme ad A Silvia anche come “Canti pisano-recanatesi”.