Canto XIX: Sogno di Dante. Cornice quinta. Avari e prodighi
Poco prima dell’alba Dante vede in sogno una femmina bruttissima, balbuziente, sciancata, priva di mani, di colorito livido. Il poeta la guarda e non solo non prova repulsione per questa bruttezza, anzi la trova bella: il suo sguardo sembra abbia il potere di sciogliere lingua della donna, di raddrizzarle le membra, di dare colore al suo volto. E la sente cantare dolcemente, e senza pudore dichiarare il suo mestiere di adescatrice esperta in lusinghe. Ma contro questa sfacciata e procace femmina, in grado di ottunder.. i poteri critici della ragione, interviene una donna santa e sollecita che richiama Virgilio al suo dovere; e Virgilio si fa avanti, afferra la femmina, le strappa la veste e ne mette a nudo il sozzo ventre: da cui sale un puzzo tale che Dante si desta per l’impressione sgradevole. Il sogno ha certamente un significato allegorico: la femmina balba è simbolo della falsa bellezza e del fascino maligno che viene dai peccati di incontinenza (avarizia – gola – lussuria); la donna santa è simbolo della grazia che aiuta e potenzia la ragione (Virgilio) nella lotta contro il male; il puzzo che esala dal ventre è simbolo della forza corruttrice dei beni mondani. Spetta alla ragione rilevare le false attrattive, e avviare gli uomini a propositi saldi.
Intanto i due poeti — si è fatto giorno — si avviano verso il nuovo girone: un angelo li ha indirizzati al sentiero ripido. Il quinto girone si presenta coperto di anime che giacciono bocconi a terra recitando un salmo, piangendo e sospirando: sono legate. piedi e mani, come si fa quando si abbattono le bestie grosse. Sono gli avari e i prodighi: con il viso a terra perché troppo amarono le cose della terra (avari); o troppo ne fecero scempio (prodighi) ed ora imparano che si deve fare buon uso delle cose; le mani e i piedi sono legati ad indicare che l’avarizia impedì il compimento delle opere di bene.
Un colloquio si svolge tra il poeta e un avaro che si dice il papa Adriano V, della famiglia Fieschi dei conti di Lavagna; fu papa per un mese o poco più: spera ora nelle preghi re della nipote Alagia, moglie di Moroello Malaspina; non certo in quelle dei suoi parenti. Aveva impegnato la sua vita nella ricerca dei beni e delle ricchezze e con questi falsi ideali era salito al pontificato: brevissimo fu il periodo del suo pontificato, ma sufficiente per fargli comprendere quanto costi quel manto a chi voglia portarlo con dignità, adempiendo i doveri imposti da quell’altissimo compito spirituale. Qui cominciò la sua conversione: le ricchezze gli apparvero nella loro vanità. Dante vorrebbe inginocchiarsi ma papa Adriano non glielo permette.
Canto XX: Cornice quinta. Avari e prodighi. Ugo Capeto
Per non calpestare le anime stese per terra i due poeti si muovono lungo i margini della cornice. Lo spettacolo delle anime che versano lacrime e soffrono per il peccato commesso, uno dei più diffusi e contaminanti, ridesta nel poeta l’onda di sdegno e di giusta collera contro la società corrotta e corruttrice. Di qui l’invettiva del poeta contro la lupa, simbolo della cupidigia, che più di ogni altro vizio si impadronisce delle anime perché inesorabilmente affamata. Quando verrà colui che caccerà la lupa dal mondo, facendo ritornare la pace e la misura?
Si continua a camminare, si sentono esempi di povertà e di generosità detti dalle anime: il primo esempio ricorda Maria che in un’umile stalla fece nascere il re dell’universo; e poi Fabrizio che rifiutò il denaro del re Pirro e San Nicola da Bari che inosservato procurò la dote a tre ragazze che il padre, per miseria, voleva avviare alla prostituzione. All’anima che dice questi esempi Dante chiede chi sia e promette preghiere quando tornerà in terra. Ma chi tra i miei eredi così degeneri può ricordarmi? Così comincia a parlare Ugo Capeto, il re francese che diede inizio alla dinastia dei Capetingi. Se passa in rassegna i suoi discendenti, non può non vergognarsi per loro. Il punto più basso della decadenza è segnato dal matrimonio di Carlo I d’Angiò che ottenne in dote dalla moglie la Provenza: da allora è tutta una ribalderia. Venuto in Italia, Carlo uccise prima Manfredi e poi Corradino: forse a lui risale la responsabilità della morte di San Tommaso di Aquino. C’è poi un altro Carlo ancor più esiziale: Carlo di Valois, un giuda; entrò in Firenze con l’impegno di rispettare i patti e di dare pace alla città e invece con la menzogna e l’inganno cacciò via i Bianchi e consegnò la città ai Neri. Da questa impresa il Valois uscirà con vergogna e con peccato. C’è poi un altro esemplare di degradazione nella stessa famiglia. è Carlo II d’Angiò che per denaro cedette la figlia in matrimonio come si fa con le schiave. Il re più scellerato è Filippo IV il Bello il quale non solo sopprimerà l’ordine dei Templari ma coi suoi sgherri oserà offendere il papa, facendolo bastonare ad Anagni. Ma la giustizia divina interverrà e libererà l’umanità da tanta infamia. D’un tratto la montagna è scossa violentemente da un terremoto cui segue un grido di esaltazione di Dio. Dante ne vorrebbe sapere la causa, ma si astiene dal chiedere per non essere importuno.
Canto XXI: Cornice quinta. Avari e prodighi. Stazio
Dante desidera vivamente di sapere quale sia la causa del terremoto e del canto delle anime. Mentre è assediato da questa curiosità, e procede lungo la strada impedita dalle anime stese e legate per terra, un’anima si colloca accanto a lui, in piedi. Dopo un affettuoso saluto, Virgilio gli chiede perché la montagna poco prima ha sobbalzato e perché le anime hanno alzato un grido. Lo spirito spiega che il terremoto — e si adopera una parola impropria — non è avvenuto per cause fisiche, quelle che accompagnano i terremoti in terra, ma per ragioni che fanno parte delle leggi del purgatorio: quando un’anima, compiuto il periodo di purificazione, assegnatole, avverte di essere libera e si muove verso il paradiso, allora montagna quasi a sottolineare questo scatto si scuote come da un movimento tellurico.
L’anima che si è liberata del peccato dopo cinquecento anni di permanenza nella cornice è proprio quella per cui la montagna si è scossa. Quali i segni che avvertono il penitente che ormai è libero? D’un tratto l’anima è colta da un desiderio di muoversi, di salire ed è un desiderio che non trova più impedimenti dentro la coscienza. Poi l’anima dice di sé: si chiama Stazio; era stato poeta ai tempi di Domiziano, e aveva composti due poemi, la Tebaide (sulla guerra dei sette contro Tebe) e l’Achilleide (sulla sita e le imprese di Achille) stimolato ed educato nell’attività poetica dal grande Virgilio, l’aver il piacere e il privilegio di conoscerlo — egli dice — sarebbe pronto a restare ancora un anno nel purgatorio. Quest’alto elogio di Virgilio fatto in sua presenza da Stazio che ancora non sa di averlo davanti, induce Dante ad un sorriso, quasi un ammiccamento. Se ne avvede Stazio e ne vuol sapere il motivo. Dante gli chiarisce che quel Virgilio tanto da lui amato è proprio in sua presenza. Stazio sta per buttarsi a terra per abbracciare le ginocchia di Virgilio, ma questi glielo impedisce: siamo ambedue ombre. «Quest’episodio di Stazio è un’appassionata esaltazione della poesia . . . per apprezzarla bene, dovete pensare che la poesia era per Dante e per i suoi contemporanei qualche cosa di diverso, di più complesso che non sia per noi. In primo luogo, allora e per molti secoli ancora, ogni poeta voleva, sì, come in ogni tempo essere originale, dire una parola sua, che non potesse essere confusa con la parola dei poeti pre
cedenti: ma non pensava che per conquistare questa originalità fosse necessario rinnegare i suoi predecessori, dir cose che questi non avevano mai detto, dibattere problemi mai dibattuti per l’innanzi. Per questa via si può raggiungere in qualche caso l’originalità vera, ma spesso anche si scivola nello stravagante e nel falso. Il poeta antico pensava di dover partire dai poeti precedenti, imparare da essi, per così dire, il mestiere; pensava anche che i fatti, le situazioni non hanno molta importanza; che pure i sentimenti, oggetto della poesia, sono fondamentalmente sempre gli stessi, perché l’uomo nella sua intima natura è sempre uguale a sé stesso; e che dunque l’originalità consiste nell’accento personale con cui sono rappresentati quei fatti o quei sentimenti. Il poeta antico non immaginava dunque che da lui cominciasse il mondo e la poesia; sapeva invece di essere un anello di una catena ininterrotta, d’una tradizione di poesia. Sicché i poeti precedenti non sono per lui colleghi più vecchi o antichi, che ci si può limitare ad ammirare, ma sono veri e propri maestri, ai quali egli deve essere grato, perché senza di essi egli non sarebbe quello che è.