Giacomo Leopardi nasce nel 1798 a Recanati, un paese oggi in provincia di Macerata ma che al tempo faceva parte dello Stato pontificio. Il padre, il conte Monaldo, è uomo colto e d’idee reazionarie; la madre, la marchesa Adelaide Antici, cugina del padre, una donna energica, religiosa fino alla superstizione, legata alle convenzioni sociali e alla famiglia. Dall’età di dieci anni fino ai quattordici viene istruito da due precettori ecclesiastici con metodi della scuola gesuitica, che prevedeva non solo lo studio del latino, della teologia e della filosofia, ma anche di materie scientifiche in modo molto approfondito. Leopardi intraprende anche un suo personale percorso di studi leggendo i libri della biblioteca paterna (che contava oltre ventimila volumi) e di altre biblioteche appartenenti a famiglie recanatesi. Nel 1809 (all’età di undici anni) compone il suo primo sonetto intitolato La morte di Ettore. Da questi anni ha inizio la produzione di tutti quegli scritti chiamati “puerili” che dimostrano come il piccolo Giacomo sapesse già scrivere in Latino e padroneggiasse la metrica in uso nel settecento. Nel 1810 Leopardi inizia lo studio della filosofia e due anni dopo, come sintesi della sua formazione giovanile, scrive le Dissertazioni filosofiche che riguardano argomenti di logica, filosofia, morale, fisica teorica e sperimentale (astronomia, gravitazione, idrodinamica, teoria dell’elettricità, ecc.). Tra queste è nota la Dissertazione sopra l’anima delle bestie. Dal 1809 al 1816 Leopardi si immerge totalmente nel celeberrimo “studio matto e disperatissimo” che assorbe tutte le sue energie e che gli provoca gravi danni alla sua salute. Apprende perfettamente il latino, il greco e l’ebraico, e in modo più sommario, il francese, il sanscrito, l’inglese, lo spagnolo, il tedesco e l’yiddish. Inizia anche le prime pubblicazioni e lavora alle traduzioni dal latino e dal greco dimostrando sempre di più il suo interesse per l’attività filologica. È di questi anni il testo intitolato Traduzione del libro secondo dell’Eneide, la traduzione della Batracomiomachia pubblicata su “Lo Spettatore italiano” il 30 novembre 1816 e la traduzione della Titanomachia di Esiodo, pubblicata su “Lo Spettatore italiano” il 1º giugno 1817. Due parole sulla Batracomiomachia: si tratta un poemetto giocoso di 303 versi da alcuni attribuito a Omero, parodia dell’epica eroica, nel quale si narra di una guerra combattuta tra topi e rane nell’arco di una giornata, guerra nella quale non manca, ovviamente, l’intervento di Zeus. La parola batracomiomachia è costruita con le tre parole greche: βάτραχος batrachos (rana), μῦς mys (topo) e μάχη mache (battaglia). Molti anni dopo, nel 1831, Leopardi scriverà i Paralipomeni della Batracomiomachia, un ampio poemetto satirico che vuole essere la continuazione degli eventi narrati nella Batracomiomachia. Tra il 1815 e il 1816 il diciassettenne Leopardi vive una profonda crisi spirituale che lo porterà ad abbandonare l’erudizione per dedicarsi alla poesia. Continua a leggere i classici, ma non più con l’occhio del filologo bensì con quello del poeta che cerca modelli di riferimento; passerà poi agli autori moderni come Alfieri, Parini, Foscolo e Vincenzo Monti, che faranno maturare in lui una sensibilità romantica. Infine gli autori stranieri: Goethe con I dolori del giovane Werther, Chateaubriand, Byron. Inizierà così a rendersi conto della ristrettezza della cultura recanatese ed a porre le basi per liberarsi dai condizionamenti familiari. Appartengono a questo periodo alcune poesie significative come Le Rimembranze, L’Appressamento della morte e l’Inno a Nettuno. In questi stessi anni Leopardi inizia ad avere seri problemi fisici e disagi psicologici che lui stesso attribuisce, almeno in parte, agli anni del già citato “studio matto e disperatissimo”. Soffre di una scoliosi molto pronunciata, dolorosa e che gli causa problemi cardiaci e respiratori, problemi neurologici alle gambe ed alla vista, mancanza di sensibilità nervosa, oltre a febbri ricorrenti e stanchezza cronica. L’ipotesi più accreditata da recenti studi è che il problema non fosse una semplice scoliosi dell’età evolutiva, ma che Leopardi soffrisse in realtà della malattia di Pott, cioè di tubercolosi ossea della colonna vertebrale; altri studi ipotizzano la sindrome di Scheuermann, una malattia genetica ereditaria dovuta alla consanguineità dei genitori. Qualunque cosa fosse, già nel 1816 Leopardi era convinto di essere sul punto di morire. Alla malattia fisica si affiancano anche crisi depressive, che taluni attribuiscono all’impatto psicologico della malattia stessa, mentre altri le ritengono conseguenza di un disturbo bipolare, cosa che spiegherebbe i frequenti cambi di umore del poeta, dall’euforia sfrenata alla disperazione inconsolabile, sentimenti che ben vediamo espressi nelle sue poesie. Tutto questo, insieme alla sua innata timidezza, rende ancora più acuto il suo disagio sociale, condizione che lo spinge ad indagare profondamente il dolore e la condizione umana. Il 1817 è un anno importante nella vita di Leopardi: insofferente dell’angusto confine in cui era stato costretto a vivere fino a quel momento, sente la necessità di uscire dall’ambiente recanatese. Nell’estate dello stesso anno inizia a scrivere quel diario di pensiero che prenderà poi il nome di Zibaldone, al quale lavorerà fino al 1832. In dicembre si innamorerà per la prima volta, della cugina Geltrude ospite della famiglia; scrive in questa occasione il Diario del primo amore e l’Elegia I che verrà in seguito inclusa nei Canti con il titolo Il primo amore. Sempre nel 1817 Leopardi scrive allo scrittore classicista Pietro Giordani, che aveva letto la sua traduzione del II libro dell’Eneide e, avendo compreso la grandezza del giovane, lo aveva incoraggiato; ha così inizio una fitta corrispondenza ed un rapporto di amicizia che durerà nel tempo. Giordani lo presenta all’ambiente del periodico Biblioteca Italiana e lo fa partecipare al dibattito culturale tra classici e romantici. La posizione di Leopardi rimane fondamentalmente montiana e neoclassica, quindi avversa al romanticismo sul piano concettuale, anche se i temi e lo spirito della sua poesia saranno, invece, perfettamente in sintonia con la mentalità romantica. Sono di questo periodo le due canzoni ispirate a motivi patriottici All’Italia e Sopra il monumento di Dante che testimoniano la sua adesione alla letteratura di impegno civile che aveva appreso dal Giordani. Tra il luglio e l’agosto del 1819 progetta la fuga da Recanati (da egli stesso definita “la tomba dei vivi”) e cerca di procurarsi un passaporto per il Lombardo-Veneto, ma il padre lo viene a sapere e il progetto fallisce. Nei mesi di depressione che seguono Leopardi elabora le prime basi della sua filosofia e inizia a comporre di quei canti che saranno conosciuti come “primi idilli” o “piccoli idilli”: L’infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, e anche La vita solitaria, Il sogno, Lo spavento notturno. Queste liriche rappresentano la fase del pensiero leopardiano che la critica definisce del “pessimismo personale” o “soggettivo”, detto anche “pessimismo psicologico”: Leopardi si accorge di come la vita sia stata spietata con lui, ma non esclude che altri possano essere felici. Questa contrapposizione emerge, ad esempio, nel canto La sera del dì di festa e, già con qualche incrinatura, anche nella canzone Ultimo canto di Saffo.